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UNA TERRA DIVINA: LA VALLE DEL FIUME NOCE TRA PAESAGGIO E SAPORI

Val del Noce

La rappresentazione classica del luogo degli dei è il monte Olimpo, che per la sua altitudine e il suo slancio verso l’empireo viene solitamente rappresentato con la neve.

Pur stagliandosi maestoso nell’entroterra, da alcuni suoi versanti è anche possibile vedere il mare. D’altronde, Zeus doveva controllare quello che accadeva nel regno di Poseidone.

Era anche questo il senso del suo potere universale.

Ecco, scalando il monte Coccovello, che domina la valle del fiume Noce, nell’area sud della Basilicata, tra i comuni di Lagonegro e Maratea, si può provare quella stessa sensazione di dominio visivo.

Il mar Tirreno visto dal monte Coccovello
Il mar Tirreno visto dal monte Coccovello

Neve e Mare. Χιών e Θάλασσα. Dal suo pianoro, che è terrazza su uno degli angoli più belli del Mediterraneo, da quello slargo che è una dolina carsica con dentro terra rossa, chi si traveste da cacciatore di paesaggi coglie appieno l’orizzonte delle quattro regioni, lungo la dorsale appenninica: se si è fortunati, si intravede la forma conica dei vulcani eolici, che chiudono la geometria delle prospettive, cerchio perfetto delle emozioni, fisiche e metafisiche. 

Echi d’Oriente

La costa di Maratea
La costa di Maratea

La costa di Maratea, grande attrattore paesaggistico di tutta l’area, assume sembianze divine in particolare nei crepuscoli invernali: le rovine attorno al monte San Biagio, dove sorge la celebre statua del Redentore - al mondo seconda solamente a quella celeberrima di Rio de Janeiro - fanno da sostegno allo sguardo mentre si perde nell’orizzontalità colorata del mare, e nella maestosa verticalità delle vette innevate sul confine calabro-lucano.

Nonostante si sia sul versante ovest della nostra penisola, forti sono gli echi d’oriente: il richiamo etnoculturale procede proprio dalle latitudini del monte Olimpo.

La valle del fiume Noce
La valle del fiume Noce

Qui riposano le spoglie di Biagio, santo di Sebaste; qui giunsero i monaci di Bisanzio, ispirati dalla regola basiliana, i quali si spinsero oltre quella barriera di monti che separa la costa dalla valle, lasciando tracce di pietra in luoghi di culto in cui la spiritualità si fa paesaggio, segno massimo della grazia divina: così testimonia l’antico eremo di Sant’Elia, ove riecheggiano i canti ascetici del culto lavriotico, qui dove la solitudine è compagna, come insegna il nome del monte sul quale sorge, ἔρημος (Armo), “solitario”. Siamo a Lauria, appena qualche chilometro all’interno, dove il fiume si fa largo tra arbusti e alture. 

L’eremo di Sant’Elia

All’ombra del titano

Val del Noce
Il Castello Ruggero

Qui, i segni della venuta anatolica si scorgono anche ai piedi del gigante che regala le acque ai popoli della valle: si erge ormai diruto e solitario il castello che tutti vogliono di Ruggero, ma che in realtà fu kastellión, ossia presidio militare del limes tra lingua greca e latina, tra Costantinopoli e Benevento, tra l’impero e la Langobardia minor.

Alle sue spalle, il monte Sirino (Σῖρις) coperto da nubi ricarica le falde utili all’uomo. Quel monte Sirino che con le nevi invernali è meta di moltissimi visitatori, provenienti dalle regioni limitrofe, che qui possono trovare sentieri, piste e ottima accoglienza. 

Scende la sera sui villaggi della valle, l’inverno si fa primavera, l’abitante recupera i suoi spazi e le sue relazioni, la piazza diventa teatro del più dolce dei tramonti: quello che illumina d’ocra le sembianze levantine della chiesa di San Giacomo, con la sua cuspide tondeggiante.

La chiesa di San Giacomo a Lauria
La chiesa di San Giacomo a Lauria

Qui si chiude lo sguardo sul piccolo olimpo lucano, con i suoi elementi, le sue stagioni, le sue emozioni. È tempo di andare a tavola. 

Le identità plurali del gusto

Ogni piatto è un racconto, l’eco di una storia che prende forma.

Nella Valle del Noce ogni piatto è un paesaggio, uno scorcio, una geografia umana, identitaria e plurale, una memoria collettiva che continua a narrarsi.

Coi profumi, le voci e i sapori. Una storia di gusto che racconta il patrimonio di biodiviersità (anche culturale) di una terra stratificata e complessa che si riconosce intimamente nel valore dell’incontro e del dialogo tra culture, facendosene espressione. Piena. Viva. Feconda. 

La tavola dell’area sud Basilicata è il luogo dell’autentico, espressione potente delle evidenze locali e delle peculiarità genetiche, degli aspetti fondativi e fondanti dei luoghi e delle comunità dell’intera valle attraversata e tenuta insieme dal fiume Noce, via d’acqua piena di racconti, così sorprendentemente impastati di terra e modernità.

Per orientarsi in questo universo di significazioni, basta riferirsi ai punti cardinali della sua geografia del gusto, i prodotti, i piatti e le preparazioni tradizionali, molti dei quali tutelati e valorizzati attraverso i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali), l’Arca del Gusto e i Presìdi Slow Food, da quelle che non sono semplicemente etichette, ma modi di difendere e raccontare il valore, i valori, l’etica e l’estetica del g(i)usto di questi luoghi.

Il re e la regina

Caciocavallo
Caciocavallo Podolico

Su tutti, il caciocavallo podolico, un miracolo che si rinnova attraverso le mani dei casari, depositari di una sapienza antica fatta di gesti quasi istintivi, di memorie di un mondo pulsante di vita; ed ecco quasi sentire in bocca i pascoli, l’unicità di un paesaggio incontaminato e vario, da zero a duemila metri, reso dolce dal lento digradare delle colline; il sapore di storie e identità, di attraversamenti di uomini e animali, in transumanza. 

E poi i pregiati salumi di Rivello e la soperzata, pure citata in postilla nella Restituta Libertas, atto notarile datato 6 gennaio 1719: per affrancarsi dal Principe di Belmonte Oronzio Pinelli Ravaschiero, gli abitanti del borgo valnocino dovettero versare 55mila ducati con l’impegno, altresì, di corrispondere annualmente a don Oronzio – su sua esplicita richiesta – “cantara quattro” di salumi paesani “che si fanno in detta terra di Rivello nel mese di marzo di ciascheduno anno”. 

La tavola e il rito

I biscotti a otto
I biscotti a otto

Ancora Storia e storie per la ricetta tradizionale dell’antica cuccìa, la zuppa di tredici tra legumi e cereali cotta nella pignatta, sul fuoco, ogni 13 dicembre, in occasione delle solenni celebrazioni legate al culto di Santa Lucia.

Se è vero che lingua e cibo sono tra gli elementi più fortemente evocativi, attraverso questo piatto si riannoda con forza, a tavola, il legame dell’area sud Basilicata con il messinese, luogo d’origine della ricetta votiva dedicata alla Santa, un legame pure già suggerito dalle consistenti tracce presenti nelle lingue locali di Rivello e Trecchina, tra i pochi comuni lucani nei quali, come nel capoluogo siciliano, si riscontrano persistenze galloitaliche. 

Allo stesso modo, rimandando alla tradizione delle comunità arbereshe calabro-lucane, i Biscotti a otto (pure affrescati dal Todisco sulla ricca tavola della sua secentesca Ultima Cena, nel Monastero di Sant’Antonio, a Rivello, i viscuttini e gli anginetti di Lauria.

Gli anginetti

In particolare, come ricostruito dall’antropologo Vito Teti, i gjinetti – i dolci rituali fatti di uova, farina, olio e zucchero che, una volta fritti, venivano spalmati di glassa – raccontano del culto della casa e del forte legame comunitario con il vicinato, primo nucleo societario, rinsaldato proprio dalle pratiche comunitarie legate al cibo e al saper fare, come attesta la radice linguistica gj-i, riconducibile a gjitonia, termine che indicava il luogo fisico della casa nel quale si producevano, cuocevano e conservavano i prodotti della terra, il maiale, ma anche il pane e i dolci. 

E se i tagliolini col latte dell’Assunzione ricordano la devozione dei pastori che, in quella giornata, il 15 agosto, non trasformavano il latte, i piedini di maialino di Lauria, preparati in gennaio con evidente rimando a Sant’Antonio Abate (e distribuiti il 13 giugno per omaggiare l’altro Antonio, quello di Padova) fanno emergere tra sacro e profano i tratti di una religiosità laica che racconta la sacralità rituale del cibo, intrecciandosi al senso profondo di comunità, che si ritrova a tavola, luogo di incontro e racconto, sempre intorno al mito del maiale, risorsa e simbolo della civiltà contadina.

Ad accompagnare i festeggiamenti del Carnevale ancora oggi c’è la Polenta di Nemoli, rigorosamente cotta nei grandi “cavodari” di rame, richiamando l’illustre tradizione artigianale che rese fiorente l’economia del territorio, tra ‘700 e ‘800, forti della presenza di una “ramiera” nell'antico casale di Bosco, lungo il fiume Sonante, affluente del Noce.

Riccamente accompagnata da pancetta o salsiccia, a seconda delle varianti territoriali, tra forme di religiosità precristiana e folclore, la polenta nemolese esprime abbondanza e convivialità, rappresentando l’ultimo ricco banchetto prima dell’astinenza e del digiuno della Quaresima. 

Un itinerario di sapori

Ancora paesaggio e comunità con i fagioli Ziminelle e San Gaudioso di Rotale, terra di laghi; con la castagna di Trecchina, emblema dei boschi e dei castagneti vetusti del monte Coccovello, ottimo ripieno per i prelibati dolci tradizionali che ben si accompagnano a quelli classici con le noci;  con il rinomato tortino di alici di Maratea, in grado di raccontare la storia e i valori  di una società matriarcale, di quel “paese senza uomini” reso celebre dai reportage fotografici delle spedizioni etnoantropologiche degli anni Cinquanta del secolo scorso;  e poi l’insalata con il pescato a miglio zero, il pomodoro costoluto, le erbe spontanee della macchia mediterranea; il liquore al finocchietto di mare, il Crithmum (cui fa eco Nives Elixir, l’amaro di Lagonegro, con le erbe officinali del massiccio del Sirino), fino al tradizionale bocconotto, per chiudere in bellezza un itinerario di cultura e gusto in questa parte di Basilicata così unica e tipica, tra Mediterraneo e Appennino. 

Credits foto: Carmine Cassino, Rosalinda Ferrari, Vincenzo Panza, Salvatore Lovoi, Ivan Rossino

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