Pechino

La via della Cina

Autore: AleC
Periodo: Estate 2006

Pechino

Il nostro viaggio cinese incomincia a Pechino uno dei primi giorni di agosto, caldo greve, umido ed insopportabile, da far sentire asciutto il clima delle risaie del pavese che sopporto con affetto ogni giorno.

Il colore di Pechino è il grigio, impossibile sfuggire, se non nei rari giorni di sole, che non abbiamo mai avuto la fortuna di condividere, un misto di smog e afa che non lascia respirare, neppure quando ci si allontana dalla metropoli per approcciarsi alle colline del nord. Il grigio è anche il colore degli Hutong, i quartieri popolari di casupole basse che attorniano la città proibita, un regno in miniatura di voci, volti e stridere di biciclette, dove è difficile rimanere soli anche per un attimo.

Quello che colpisce al primo impatto della città è la sua immensità, la municipalità di Pechino è grande come il Belgio. La sua grandezza la si comprende solo prendendo in mano una mappa e rendendosi conto che per muoversi da un quartiere all'altro è molto meglio prendere il taxi.

Tien An Men è lo specchio della grandezza di Pechino, la piazza piu' grande del mondo, di cui quasi non si riesce a scorgere la fine. Di fronte l'accesso alla città proibita e il volto di Mao Tse Tung, protetto dalla guardia dei soldati, fino a che il comunismo rimarrà, “per diecimila anni” come dice lo slogan. La città proibita é un immenso pacchetto di incessanti lavori di restauro in vista delle olimpiadi del 2008, a causa delle quali si sta sventrando una parte della città per ricostruirla come nelle stampe cinesi di molti anni fa: alle spalle di Tien An Men un immenso quartiere popolare è in demolizione per farne una serie di case di “architettura tipica popolare”, come ci raccontano entusiaste un paio di ragazze cinesi.

Poco più inaugurara lo stadio di Pechino, due anni prima dell'evento e la sera la tv trasmette un concerto in onore delle olimpiadi, oppio e speranza al tempo stesso di tutti i pechinesi.

Dalle vie affollate del centro, tra neon, risciò e mercatini con bachi da seta e scorpioni caramellati, alla city economica ci sono pochi chilometri e un intero universo di distanza. Le casette basse ad un piano lasciano il posto ai grattacieli, i risciò alle auto e i ritmi lenti dei vicoli al concitato passo di scarpe con il tacco e tailleur. Difficile riuscire a conciliare una cena su una sedia scassata nel mezzo della via a un dollaro con lo sperpero dei grandi party nei bar della city.

Finiamo coinvolti nell'inaugurazione di un nuovo bar nel grattacielo dell'Hilton, spettacolo di suoni, luci e spreco che fa impallidire le notti milanesi del salone del mobile e milano moda, con dj inglesi, percussionisti africani, sigari cohiba che volano e bottiglie di moet chardon lasciate per terra su una moquette che ha l'aria di costare come un quartierino di case basse del centro. La nuova imprenditoria cinese arriva su mercedes o Porshe Cayenne, accolta da un esercito di inservienti che sorridono, aprono la porta, ti accompagnano al tavolo e addirittura ti massaggiano la schiena mentre sei a lavarti le mani nel bagno. In una sera si spende quello che un operaio guadagna in un anno, sempre seguendo in maniera morbosa lo stile occidentale nelle sue manifestazioni più esibizionistiche.

La Grande Muraglia

In tre ore di viaggio da Pechino si raggiunge la grande muraglia. A differenza del clamore di altri punti più vicini, Simatai è rimasta più genuina, parzialmente crollata e ancora ben lungi dal poter essere ricostruita.
E' un sentimento difficile da esprimere quello che si prova camminando su una piccola porzione della muraglia, migliaia e migliaia di chilometri che dividevano due mondi profondamente diversi, un confine che ora non esiste più ma ancora carico di miti, leggende e significati, come quelle che raccontano i cinesi, legati alla costruzione della muraglia e ai cadaveri dei morti sul lavoro gettati nella costruzione, le cui anime vagano ancora la notte sulle colline spoglie che segnano il confine tra impero e Mongolia.

Le giornate grigie e il silenzio del giorno in cui arranchiamo le scalinate in rovina e le torri mozze amplificano questa sensazione di mistero: intorno il paesaggio è brullo, cosparso solo di cespugli a perdita d'occhio, senza case o tracce di vita umana, se non quella degli instancabili venditori mongoli che ti seguono passo passo.

Tornando alla città sul pullman scassato, che alla fine esala l'ultimo respiro a pochi passi dall'ostello, il pensiero vola al desiderio di almeno una settimana con zaino e scarponi sulla più grande via della Cina, sospesi in un universo lontano da quello reale.

E' un sogno, a tratti un po' delirante, questo viaggio Cinese.

Mura lunghe migliaia di chilometri, città grandi come nazioni, monasteri sospesi nel vuoto, eserciti di terracotta che sorvegliano il sonno di imperatori e templi nascosti nella montagna con migliaia di statue.

Datong

La terribile povertà di Datong, distretto minerario carbonifero ad una notte di treno da Pechino, contrasta con lo splendore dei suoi templi buddisti, scavati nella montagna a partire dal ‘400 d.c., con statue alte anche 15-19 metri, 5000 in tutto, scavate all'interno della montagna. Il mostruoso afflusso di turisti non riesce ad infastidire tanta è la maestosità di questi volti che ti fissano dall'alto con volti distesi e paciosi, quasi a voler trasmettere quella pace che hanno acquisito nel rimanere fermi ed immutabili per tutto questo tempo. E' un'oasi surreale di pace in cui ritemprarsi, prima di affrontare la vita reale appena fuori, fatta di miseria, carbone e casette sporche in terra cruda, in cui il compagno di viaggio è l'asino e il futuro un posto in miniera.

A pochi chilometri c'è un monastero in legno aggrappato alla montagna come in ragno, lo chiamano il monastero sospeso, anche se in realtà per ben quattro volte in passato è finito nel fiume. All'interno di una gola stretta, ci si po' scrollare di dosso l'odore forte del carbone e chiedersi per quale inspiegabile motivo i monaci hanno voluto andare ad abbarbicarsi in un posto così aspro, anche se ormai i monaci non ci sono più e rimangono i turisti.

Mentre torniamo verso i nostri letti su rotaia capita di fermarsi in un paese di cui non ho annotato il nome, dominato da una immensa pagoda in legno, e qui per la prima volta assisto a qualcosa che pare la fondazione di una città, tutto in un solo colpo, con decine e decine di gru e ampi spazi in cui è stato fatto tabula rasa di tutto.

Questa è la grandiosità delle opere cinesi, eserciti di operai che assaltano i campi per costruire case in stile finto-imperiale e palazzi alveare, secondo uno schema ben preciso che prevede la zona commerciale intorno alla pagoda e i quartieri residenziali poco lontano. La squadra di operai è supportata da un gruppo operativo di donne che preparano in continuazione da mangiare su tavolacci di legno allestiti temporaneamente intorno i cantieri, Nel mentre due vigili gestiscono il traffico dei pedoni e delle biciclette, che devono necessariamente passare su un'asse in equilibrio sulla gettata in cemento della strada per andare da una parte all'altra del paese.


Pingyao e Xian

Il nostro viaggio continua verso sud fino a Pingyao, nella quale tranquillità spenderemo un po' di giorni, lontano dal trambusto e dal caos.
Pingyao è una eccezione nella Cina delle metropoli, un paese, una dimensione di cui si finisce per dimenticarsi molto spesso in questa nazione, uno splendido paese fermo al Seicento, con case in stile imperiale, due templi, il palazzo del governatore e possenti mura esterne, il tutto in un ambiente tranquillo in cui le auto sono state sostituite da ciclomotori elettrici. E' un posto talmente anomalo che puo' accadere di tutto, tra cui incontrare la sorella di una delle proprie migliori amiche a spasso con il marito, mentre si scattano foto ad una apparente festa di via, che risulta poi essere un funerale.

Dopo le notti in treno e il caos delle città questo paesino è un lungo respiro disteso e finiamo per fermarci piu' del previsto. La sera si guardano film stupidi americani nella piccola videoteca dell'ostello, insieme ad amici spagnoli e al gestore del posto , che offre te verde a chi ha problemini di stomaco.

Da Pingyao a Xian è un'altra notte di viaggio, e una notte senza sonno porta il regalo di poter osservare il microcosmo dentro e fuori la cuccetta mentre il treno corre in una notte che è incredibilmente buia.

Non si vede traccia umana per la campagna la notte, sembra di muoversi in un mondo vuoto, di percorrere lande senza vita. Ogni tanto il fascio di luce proiettato dal locomotore si scontra con un lampo proveniente in senso opposto, ed è sempre un treno carico di carbone. Sono loro i protagonisti della notte cinese, decine di treni di carbone che si muovono nei depositi o su linee secondarie, a volte parallele, con locomotrici diesel che spezzano con il loro ruggire il monotono suono della carrozza. Anche nelle stazioni c'è silenzio, ma sempre il capostazione con una lanterna in mano a dare il segnale di via libera, così come ai caselli, mai meccanizzati, con un omino dalla lanterna in mano nel mezzo della strada.

Dopo una rara sosta in una stazione il responsabile della carrozza lascia salire a bordo quattro donne, e, dietro una mancia, lascia loro dei letti vuoti. Quindi si riparte, ancora per ore fino alle luci dell'alba. Fino a Xian, e all'esercito di terracotta.

Xian
è l'ennesima metropoli cinese, con un bel quartiere di mercati islamici e un ancor più caratteristico mercato di incisori e calligrafi vicino alla porta meridionale, sempre contenti di scambiare due parole e offrire un sorso di birra ai pochi turisti che si avventurano in questi quartieri.

Ma ad una sola ora di pullman ecco una delle meraviglie della Cina, l'esercito di Terracotta, seimila soldati a guardia della tomba di un imperatore morte milleottocento anni fa, ognuno di loro con armi e un volto suo, diverso dagli altri. L'esercito di terracotta è un crescendo di emozioni, prima si incomincia vedendo la singola statua, poi la ricostruzione di un carro, poi dieci e cento, fino a giungere all'ultimo capannone in cui ci si staglia all'improvviso contro migliaia di soldati, in basso, pronti a ricevere ordini e a rompere file serrate mantenute per migliaia di anni.

Intorno è un brulicare di venditori e taxi, come sempre, ma allontanandosi di poco si riesce sempre a trovare un buon ristorantino famigliare in cui fermarsi, rigorosamente sempre con menu solo in lingua locale.

A differenza dei precedenti, l'ostello di Xian vicino alle mura è brutto e sporco, ma le persone sono interessanti, e troviamo una coppia israeliana, un girovago senza meta inglese e un gruppo nutrito francesi.

Ma le serate sono sempre con un coreano pazzo senza fissa dimora, un programmatore francese malinconico e una neolaureata in legge giapponese, in giro per il mondo per sei mesi. Il popolo degli ostelli è sempre il più variegato che si possa trovare, da conoscere per poi salutare quasi subito, dopo un paio di serate nei pub o a vedere i giochi d'acqua delle fontane sotto la pagoda: Shangai, ultima tappa, e il viaggio in treno più straziante di tutti.

Poi arriva il mattino del rientro, con l'unico rammarico di non aver provato il treno a levitazione magnetica, e gli zaini carichi di piccoli e grandi ricordi di questa terra ancora sconosciuta. E' stato solo un assaggio, un primo assaporare qualcosa di completamente nuovo e diverso. E adesso è la voglia di conoscere meglio questo popolo così ospitale e così pudico allo stesso tempo, per prepararsi ad un secondo viaggio con una consapevolezza maggiore.

Shangai

16 ore sono tante, sul maledetto treno per Shanghai non passano mai, pigiati in piedi con senza possibilità di sedersi o andare da qualche parte, con la consolazione sola che anche un Milano Reggio Calabria in questi giorni deve essere qualcosa di simile. Arriviamo distrutti, ma la fortuna ci conduce in un attimo all'ostello nuovo di Shanghai, gli ultimi giorni del viaggio.

Shanghai è una megalopoli nuova, un fiorire di grattacieli che solo di rado lasciano spazio a fazzoletti di casette basse simili agli hutong con un destino segnato e un futuro breve. In questi vicoli si trovano ancora tutte le figure classiche che ci si aspetta di vedere in Cina, e cioè i venditori di bacchette, i pittori, i calzolai con i loro attrezzi sparsi sul ciglio della strada e i sarti con le macchine da cucire in baracche di legno buie e fumose.

Ma questo mondo perde giorno dopo giorno il sole per l'avanzare dei giganteschi grattacieli, il quarto più alto del mondo è ormai anziano ed è in costruzione uno che prenderà il secondo posto della classifica poco distante. Dalle loro cime pare di essere in aereo e i bordi della città si perdono in un crepuscolo che li rende confusi.

Tra una passeggiata per il Bund e un giro al museo o nella vicina città di Huangdong, piccola Venezia orientale, il nostro viaggio si avvicina alla fine, e ci buttiamo nelle discoteche con il nuovo popolo trasformista dell'ostello, che questa volta annovera un Marine ferito in Iraq nel 92, due girovaghe olandesi che arrivano via transiberiana, un italiano in deviazione di rotta per andare dalla morosa coreana e un assortimento vario di americani e australiani.

Poi arriva il mattino del rientro, con l'unico rammarico di non aver provato il treno a levitazione magnetica, e gli zaini carichi di piccoli e grandi ricordi di questa terra ancora sconosciuta. E' stato solo un assaggio, un primo assaporare qualcosa di completamente nuovo e diverso. E adesso è la voglia di conoscere meglio questo popolo così ospitale e così pudico allo stesso tempo, per prepararsi ad un secondo viaggio con una consapevolezza maggiore.

Riproduzione riservata